Un fantasma si aggira per l'Europa - di Antonio Fazio

Trovo interessante riproporre queste riflessioni di Antonio Fazio in quanto ex banchiere centrale.




Nella prima parte racconta le paure tedesche dell'inflazione che hanno contagiato tutta l'eurozona. Le motivazioni per cui si arriva a quell'inflazione sono chiare, peculiari, specifiche, createsi per situazioni assolutamente particolari che difficilmente si potrebbero ripresentare in questo momento storico (quindi basta per favore! con Weimar). Ma tant'è! Siamo costretti a condividere le paure tedesche che però visto il momento a loro fanno ben comodo.




Si parla anche dei surplus che la Germania sta realizzando grazie ad un export drogato dall'assenza di cambi flessibili o quanto meno adeguabili alle realtà in campo. Il surplus che viene generato dovrebbe servire per produrre sviluppo negli altri Paesi dell'Unione invece la realtà ci dice che questo squilibrio fatto da surplus tedesco e deficit dei paesi mediterranei sta portando deflazione e disoccupazione. Ma noi accettiamo tutto come ineluttabile.

Viene meno anche lo spirito iniziale con cui ci siamo approcciati ad un'Unione Europea (e non parla di Ventotene). Fazio parla di sussidiarietà, che non c'è, manca palesemente in questa parte di Europa. E non c'è il lavoro, non ci sono intenti comuni.

Mi piace che a dire queste cose siano quelli che hanno fatto la “storia”, quelli che sono sempre più credibili, un altro personaggio “importante” che si aggiunge a quelli che “io l'avevo detto che non poteva funzionare” e vi dico anche cosa bisognerebbe riconsiderare.

In ogni caso riflessioni importanti, al di là delle responsabilità, che aiutano a capire che non stiamo sbagliando nelle nostre analisi. Non dico che condivido tutto ma ognuno deve ragionare con la sua testa, quindi lo posto intero con alcune sottolineature e grassettato per qualche punto che ritengo più importante.

Anche quando si sottolinea l'importanza della politica. E' la politica che fa l'economia e così deve essere. La politica ci ha portato al dominio dell'economia prima e della finanza poi e adesso continua a non prendersi seriamente la colpa dei suoi errori e continua a trascinarci verso l'ignoto. Anche adesso che piano piano tutti i vecchi protagonisti se ne stanno tirando fuori (almeno a parole). I nuovi sono troppo pieni di se stessi e non giocano nemmeno con le parole, non mettono in dubbio niente.



Un fantasma si aggira per l’Europa.


È quello di un’economia sempre asfittica, nonostante le contromisure della Bce e gli sforzi dei governi nazionali. È materia di riflessione per Antonio Fazio, già governatore della Banca d’Italia (dal 1993 a fine 2005), che studia questa involuzione del quadro economico e sociale. Il testo affidato ad 'Avvenire' scaturisce da una serie di chiacchierate nella sua casa romana e nella natia Alvito, oltre che da alcune conferenze, in particolare dalla Lectio magistralis dell’11 settembre 2015 a Trento nell’ambito dell’evento '100 anni dalla Grande guerra'. È una carrellata nella storia, per ripercorrere situazioni ed errori che rischiano di replicarsi. Una volta persa la flessibilità del cambio, le politiche attuate per fronteggiare la recessione hanno danneggiato ulteriormente le economie del continente, a partire da quella italiana (si veda il grafico in pagina). Con un’attenzione quasi ossessiva per la stabilità monetaria e per il controllo della 'corsa' dei prezzi stiamo scivolando verso la deflazione. Un fattore che determina la frenata negli investimenti, già messi a dura prova dalle cure draconiane inflitte ai conti pubblici. Così, fra bilanci ristretti, bassa crescita e alto debito si alimenta un circolo vizioso di cui non si vede l’uscita. Fazio, che nell’euforia del passaggio alla moneta comune fu quasi l’unica voce a prevedere che gli anni dell’euro sarebbero stati «un purgatorio», e che da banchiere centrale negli anni 90 bloccò in Italia l’inflazione, ci offre oggi la sua analisi. (E. Fatigante)


Il problema dell’Europa esiste ed è serio. C’è un problema grave di disoccupazione e sottooccupazione: la principale fonte di disuguaglianza sociale e di conseguenze politiche, ancora non completamente espresse. C’è un problema serio di deflazione, che frena gli investimenti. E c’è poi il discorso dell’integrazione; fino a che non ci comprendiamo come lingua, ma anche come cultura, tutto è molto complicato.«Historia magistra vitae», diceva Cicerone.

La storia è luce di verità. C’è una frase di Keynes, rivoluzionatore innovatore del pensiero economico e maggiore economista del XX secolo: «La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali per coloro che sono stati educati, come la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente».

È una frase valida ancora oggi per spiegare alcuni snodi della situazione economica. Il problema che deve stare a cuore agli economisti è l’occupazione. Lo sviluppo di una società si misura – a tutt’oggi – con il Prodotto interno lordo; ma l’ammontare del Pil è strettamente correlato con il tasso della buona occupazione. L’economista, se svolge la sua funzione di 'medico sociale' in qualsiasi campo, sia della politica economica sia della politica monetaria, deve avere davanti a sé questo obiettivo.

Quando c’è disoccupazione la società non sta bene, la società è malata! La nostra Costituzione si apre col fondamentale articolo 1: «La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro». Il lavoro è alla base dei diritti civili e della cittadinanza; il lavoro non è solo fonte di reddito, ma anche fonte di dignità. Ho la sensazione che ci siamo scordati, a livello politico, di questo fondamento. I grandi uomini e fondatori dell’Europa, De Gasperi, Adenauer, Schumann, lo avevano ben presente. Il fenomeno del non voto e del voto di protesta è strettamente legato a questa problematica. La crisi economica, la crisi di occupazione, ha delle profonde influenze politiche oltre che sociali.

Per studiare la storia dell’economia del tempo, occorrono serie analisi, altrimenti si fanno chiacchiere. Sempre Keynes nel libro «A Tract on Monetary Reform» del 1923 analizza l’inflazione dal 1913 fino ai primi sei mesi del ’23. Nel 1913 la Germania era la seconda potenza economica mondiale. Non abbiamo dati attendibili sul Pil, ma c’è l’indice della produzione di energia elettrica che era allora, più di oggi, fortemente legata all’andamento dell’industria. In Germania era maggiore di quella di Inghilterra, Francia e Italia tutte insieme. Nel 1914 viene meno il Gold Standard (il legame rigido tra il valore di una moneta e l’oro), che aveva di fatto garantito per vari decenni la stabilità mondiale dei prezzi. Le spese della guerra deprimono i valori delle monete, fanno crescere ovunque i prezzi.
Nel Regno Unito i prezzi passano da 100 nel 1913 a 160 nel 1923; in Francia i prezzi si quadruplicano, in Italia quasi si sestuplicano. Nel Giappone si raddoppiano. Gli Stati Uniti, diventati oramai la prima nazione industriale del mondo, mantengono il Gold Standard fino agli inizi degli anni Trenta (lo congelano, a dire il vero, tra il ’17 e il ’23). Dopo il 1923 il dollaro è la moneta più stabile a livello mondiale. Ma guardate cosa succede in Germania, dove nella prima metà del 1923 i prezzi sono aumentati di migliaia di volte rispetto a dieci anni prima.

Parlo di questi aspetti della storia economica e monetaria, perché hanno inciso profondamente sulla storia politica e sulla cultura tedesca. Costantino Bresciani Turroni è autore del trattato: 'Le vicende del Marco tedesco'. Sono vicende sconvolgenti per la loro intensità e per le gravi conseguenze politiche. La politica ha un ruolo rilevante, determinante per l’economia, a causa dell’inflazione, quindi della successiva politica deflazionistica, negli anni della grande depressione. I tedeschi sono convinti di vincere la guerra; aumentano fortemente le spese pubbliche. Improvvisamente si rovesciano le sorti; cade il secondo Reich di Bismarck, l’imperatore va in esilio. Nasce la Repubblica di Weimar. A causa delle esagerate riparazioni di guerra richieste dagli Stati vincitori, la Germania viveva gravi difficoltà dell’economia, anche per tentare di venire incontro, con sussidi e forme di occupazione fittizia, a quasi 6 milioni di uomini che dalla guerra erano rientrati nelle attività civili. L’equilibrio viene trovato ricorrendo progressivamente alla stampa di moneta. Il marco inizia a perdere valore nei confronti delle altre monete: salgono i salari e i prezzi, lo Stato riduce la disoccupazione creando nuova moneta. Nel 1919 l’aumento dei prezzi sale in un anno al 60%, nel 1920 del 240%. Nel 1923, a causa anche dell’invasione della Ruhr da parte dei francesi, sale tra il 15 e il 40% al giorno. Si raccontano gli aneddoti, veri, degli avventori che si sedevano al bar per prendere il caffè; quando si alzavano il prezzo era raddoppiato. Diventa frequente, per i dipendenti pubblici, ma anche privati, di andare a riscuotere gli stipendi con le carriole. I salari erano pagati in biglietti di banca. I francobolli con l’immagine di Bismarck sono di molti milioni di marchi; non ce la fanno più a stamparli a valori crescenti, le lettere venivano affrancate con biglietti di banca. Si stampano banconote da mille miliardi di marchi, da 5mila, da 100mila miliardi; non fanno in tempo a stamparle da ambedue le parti, sono stampate solo su un lato.



I prezzi a Berlino nel novembre ’23: un chilo di pane costava 428 miliardi di marchi, 1 kg. di burro 5.600 miliardi di marchi, un francobollo 100 miliardi. È un fenomeno di cui non si ha nessun altro precedente, fortunatamente, nella storia. I tedeschi sono stati capaci di creare un’inflazione di cui gli studiosi stanno ancora cercando di capire le cause. Cosa avevano fatto? Iniziano ad espandere fortemente il debito pubblico, perché sperano di vincere e rifarsi con i territori conquistati. Non ci riescono, debbono stampare moneta in misura sempre crescente. Quando l’inflazione è così forte alla fine diventa un fenomeno puramente monetario. Si arriva al nuovo marco, il cui valore è stabilito in mille miliardi di vecchi marchi. Dal 1924 in poi la politica economica tedesca, come chiarito da Bresciani Turroni, si è ispirata al concetto che la preoccupazione della stabilità monetaria dovesse prevalere su qualunque altra considerazione. E questo è vero ancora oggi.

Ecco perché mi interessava raccontare questo: all’epoca bisognava mantenere stabile la moneta a qualunque costo, anche a prezzo di ripercussioni temporaneamente dannose per l’economia. Quando si sente il ministro delle Finanze Schauble, bisogna ripensare a tutto questo... Lo Statuto della Banca Centrale Europea è più o meno su questa linea: la Bce ha l’obbligo di mantenere la stabilità della moneta, il che significa un’inflazione del 2% all’anno. Adesso siamo allo 0,4%, a un livello forse di deflazione, che è una malattia estremamente grave. Il 2% di inflazione è un fenomeno molto meno grave della deflazione. La politica deflazionistica si prolunga nel corso degli anni Venti. Nel 1930 la Germania era il secondo Paese industriale nel mondo. Alla crisi del 1929, iniziata a livello internazionale e già manifestatasi fortemente negli Stati Uniti, si aggiunge la deflazione in Germania. Si comincia a parlare di politiche di tipo keynesiano, di lavori pubblici per far fronte alla disoccupazione, enormemente aumentata. Non se ne fa nulla per timore dell’inflazione. Si insiste nella deflazione. Risultato: nel 1932 si parla in Germania di 6 milioni di disoccupati, ma forse erano 8 milioni, contro gli appena 800mila del 1928.

Il nazismo, chiamato ad assumere la responsabilità a seguito della grave crisi economica, rilancia l’occupazione. Viene fondata, attraverso i sindacati, la Volkswagen. La motorizzazione privata era pressoché inesistente; lo stesso Hitler progetta il Maggiolino, ne affida lo sviluppo all’ingegner Porsche. La produzione industriale della Germania dal 1932 raddoppia in 5 anni, anche perché si avvia la produzione di carri armati, aerei e armi. Che cosa avviene negli altri Paesi? Nel 1925 l’Inghilterra, nel tentativo di riassumere il suo primato nella finanza internazionale, rientra nel Gold Standard; ma lo fa ai prezzi del 1913. Keynes era già famoso per la critica al Trattato di Versailles deplorato anche da Eugenio Pacelli, allora nunzio in Baviera -, che è essenzialmente alla base del disastro dell’economia tedesca per le onerose riparazioni di guerra. Per Keynes, ciò avrebbe comportato un grave danno per tutta l’economia europea. Ancora Keynes nel pamphlet 'Economic Consequences of Mr. Churchill' critica la mossa del Cancelliere dello Scacchiere sul cambio fissato di nuovo ai prezzi del 1913, mettendo in luce la conseguente perdita di competitività. L’economia inglese risente negativamente, negli anni seguenti, dell’errore nella fissazione del cambio, compiuto per motivi di prestigio, per tentare di far riprendere a Londra un ruolo centrale nel sistema internazionale. Critiche dure sono mosse da Keynes anche verso la Banca d’Inghilterra, che attua una politica restrittiva per tentare di abbassare salari e prezzi. Il risultato è invece un peggioramento della disoccupazione.

La mossa dell’Inghilterra si rivela ancora più grave poiché anche la Francia decide ugualmente di rientrare nel Gold Standard,ma a un tasso di cambio svalutato. Segue un’altra trentina di Paesi, sempre per motivi di prestigio. La politica monetaria allora intesa, in senso grettamente limitato, come difesa del rapporto di cambio tra la moneta legale e l’oro, distrae da una politica economica che avrebbe dovuto essere indirizzata a combattere l’incipiente recessione. Della politica tedesca si è già detto. L’Italia nel 1926 attua ugualmente una politica di forte restrizione, la cosiddetta 'quota 90'. Gli economisti italiani consigliano a Mussolini di seguire la politica - che Keynes aveva ironicamente consigliato a Churchill - di ridurre del 10%, d’imperio, prezzi e salari. Cosicché la 'quota 90', rapporto di cambio tra lira e sterlina, viene a essere popolarmente interpretata come la riduzione al 90% di tutti i prezzi, tariffe, stipendi e salari. Ciò non basta per riacquisire competitività verso l’estero; occorrono altre riduzioni forzate di prezzi e salari. L’Italia mette comunque in atto una politica di grandi opere pubbliche, combattendo in qualche misura la recessione.


Il tentativo di molti Paesi - di legare le monete ai prezzi dell’oro oramai fuori linea con i livelli dei prezzi interni - fa precipitare l’economia mondiale nella Grande crisi. La crisi, iniziata per motivi di mercato in agricoltura, si manifesta nell’estate del 1929 negli Usa attraverso una brusca caduta della produzione industriale. Segue il crollo delle azioni a Wall Street. La forza produttiva degli Stati Uniti attrae l’oro delle banche centrali da tutto il mondo verso il mercato finanziario di New York. Anche la Francia accumula oro grazie alla svalutazione del franco. Tutti gli altri Paesi perdono oro: iniziano crisi bancarie, dapprima in Austria e Germania. L’Inghilterra lascia poi svalutare la sterlina nel settembre ’31. La crisi continua ad espandersi, con ripercussioni politiche fatali. Gli Stati Uniti escono dalla recessione solo attuando una forte espansione degli investimenti pubblici, e aumentano notevolmente la quantità di moneta rivalutando l’oro rispetto al dollaro. Dopo la forte caduta, l’economia americana riprenderà a crescere, ma lo fa al ritmo del 10% all’anno in termini reali. Ben Bernanke, in un articolo pubblicato sul Journal of Money, Credit and Banking nel 1995, dimostra che in tutto il mondo la ripresa per ogni Paese si ha, negli anni Trenta, mano a mano che le singole economie si staccano dal Gold Standard. L’avvento del nazismo, conseguenza politica della grande inflazione trasformatasi poi nella grande depressione, trascina il mondo in guerra.


Veniamo a noi. Nel 1997 l’Italia entra nell’Europa dell’euro. Nel Trattato di Roma del 1957 l’obiettivo dell’Unione è lo sviluppo economico. Un principio solennemente espresso nel Trattato che deve presiedere alla politica economica è la sussidiarietà. Ogni Paese deve attuare la politica che ritiene adatta al suo sistema economico e alle sue istituzioni e coordinarsi con gli altri per tendere all’obiettivo comune della crescita. La Commissione Ue deve aiutare gli Stati che non riescono ad inserirsi favorevolmente nel processo di crescita. È cambiato qualcosa? Dov’è finito il principio di sussidiarietà? Si dice in quegli anni a livello politico: «L’Italia deve entrare in Europa». Ero governatore e obietto: «Ma noi siamo già in Europa, siamo stati fondatori! Ma siamo pronti a entrare nell’euro?». Nel 1996 a mia insaputa – il regime del cambio è responsabilità del governo – si decide di rientrare nel Sistema Monetario Europeo (Sme); ne eravamo usciti per l’incapacità di tenere il cambio, a causa della insufficiente competitività nei costi di produzione interni. Il rientro nello Sme prelude alla partecipazione alla moneta comune. Il Governatore ha l’alternativa di due linee di comportamento: può dire «non mi interessa, me ne vado» oppure «faccio ciò che mi si chiede, aiutando il mio Paese a realizzare gli obiettivi politici che si è dato».

Ritenevo che fosse opportuno quanto meno attendere per entrare nell’euro, ma la decisione politica era ormai orientata in modo esplicito. La politica monetaria aveva svolto i suoi compiti per stabilizzare il cambio: aveva ridotto a meno di 200 punti del forte spread tra titoli pubblici italiani e tedeschi (che aveva raggiunto i 900 punti). Aveva drasticamente frenato l’inflazione. Ma non aveva potuto certamente ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al di sotto del 60% richiesto dai Trattati europei. Ritenevo pertanto che dovessimo prima fare delle politiche volte ad aumentare la produttività dell’industria e in generale a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto. 


La notte del 24 marzo 1997 a Francoforte c’è una riunione drammatica: si discute di quali Paesi abbiano i requisiti per entrare nell’euro. Il Belgio e l’Italia non li hanno, sono fuori per l’eccesso di debito. La Grecia è fuori, ma ha comunque deciso di non entrare subito. L’Inghilterra decide di restare fuori indefinitamente, e così anche Danimarca e Svezia. Dico ai miei colleghi: «Cari amici governatori, io non posso accettare questo e vi avverto che se domani si scrive nel cosiddetto Rapporto di convergenza che l’Italia non partecipa, salta lo Sme e viene meno l’avvio dell’euro. Non è una minaccia, è analisi economica». Nel rapporto si finirà per scrivere che l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito. Era mezzanotte, non potevo consultare alcuno a Roma; scrivo sul momento un piano pluriennale di rientro del debito pubblico, impegnandomi a proporlo al governo per farlo diventare operativo. Con un linguaggio criptico, l’Italia alla fine viene ammessa.

Ricordo che purtroppo di quelle promesse la politica italiana, dopo averle assunte formalmente, non ne ha fatto nulla. Il rapporto fra debito e Pil ha continuato ad aumentare paurosamente, fino al 2015. Vengo chiamato in Parlamento, da una commissione della Camera. Mi si chiede del perché del mio atteggiamento sulla moneta comune. Riferisco: «Tutta la politica monetaria attuata negli anni Novanta era volta a ridurre inflazione e spread e a stabilizzare il cambio. Non ho fatto né consigliato alcun 'macello' di politica economica, ho condotto soltanto la politica monetaria adeguata e ho dato dei messaggi consoni a una aspettativa razionale di andamento delle variabili economiche, inclusa la possibilità di entrare nella moneta comune». Il banchiere centrale doveva in ogni caso condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o meno alla moneta comune. Spiego ancora: «Sentite, noi entriamo, ma il problema è come restare nell’euro. Quando si perde la manovra del cambio, si dovrebbe riacquistare una flessibilità del costo del lavoro e della finanza pubblica che ci permetta di rimanere competitivi». Avevamo l’esperienza dello Sme. Qualcuno diceva: stando nello Sme spingeremo le imprese ad aumentare la produttività e a contenere i salari. Ma ciò non era avvenuto: il sistema non aveva funzionato. Anche quando ero a capo del Servizio Studi, avevo sempre osservato che questo meccanismo non funziona.

Affermo in Parlamento: «Non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo. Sapete cos’è? È il terreno che si abbassa sotto il livello del mare gradualmente, come a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi». Guardiamo ora i dati della competitività italiana. Il Clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, aumenta in Italia tra 2000 e 2003 del 9,9%; in Germania e Francia, i nostri maggiori partner e competitori, rispettivamente dell’1,7 e 1,5%. La produzione industriale in Italia tra il 2000 e il 2004 scende del 2,8%, in Germania sale del 3%, in Francia del 2%; nell’Europa dei 12 (Italia inclusa) cresce del 3%. Mentre la produzione europea sale, quella italiana scende. Mi piace molto fare da solo i conti sulle principali variabili macroeconomiche, con i dati ufficialmente disponibili. Ho calcolato, dal 2006 ad oggi, gli andamenti in Italia e in alcuni altri Paesi dei dati più rilevanti. Il Pil in questi 9 anni è calato in Italia del 5,5%, meno 0,6% all’anno; nel resto dell’Europa dell’euro, che comprende anche Slovacchia, Estonia, Spagna, Portogallo e Grecia, cresce dello 0,8% all’anno. Osservate il bradisismo: è uno sprofondamento dell’1,4% all’anno. Quello che muove l’economia sono gli investimenti produttivi: sono diminuiti in Italia tra 2006 e 2014 del 27%, nel resto d’Europa sono aumentati. Le esportazioni sono salite in Italia dal 2006 del 14,6%. Il problema è che le esportazioni crescono molto più rapidamente dell’economia e nel resto dell’Europa sono aumentate del 35%. E come va il Clup? In Italia sempre dal 2006 in media è aumentato del 2,4%, nel resto dell’Europa (inclusi Grecia e Portogallo) dell’1,5%, ma in Germania e Francia l’aumento è stato pressoché nullo. Si debbono fare allora le riforme, anche se non saranno quelle istituzionali a ridurre il costo del lavoro, punctum dolens dell’Italia per uscire da questo stallo. Avremmo, per esempio, da imparare dalla Germania circa la partecipazione dei sindacati nell’indirizzo e gestione delle imprese. Adam Smith, ritenuto il fondatore della moderna economia politica, diceva che i sistemi economici si reggono sulla concorrenza e sul mercato, ma anche sulla sympathy, l’amicizia civile che è unità d’intenti all’interno della nazione. Non si può vivere di sola concorrenza e tanto meno di lotta di classe.


La conclusione. Vediamo l’economia mondiale. Il Pil degli Stati Uniti è di circa 18mila miliardi di dollari l’anno. Il Pil della Cina è circa la metà (da tener presente però che negli Usa vivono 300 milioni di persone, nella Cina un miliardo e 300 milioni, quindi il reddito pro capite è un ottavo). Il Giappone ha un Pil di circa 5mila miliardi. La Germania di oltre 3mila miliardi di dollari; la Francia 2,3 circa, l’Italia 1,7. L’area dell’euro: circa 11mila miliardi, un po’ sopra la Cina, notevolmente inferiore agli Stati Uniti che hanno più del 20% del Pil mondiale (l’area dell’euro ha circa un ottavo). La bilancia dei pagamenti, differenza tra quello che si esporta e quello che si importa, negli Stati Uniti è deficitaria per 456 miliardi di dollari. Come fanno? Creano dollari, principale moneta internazionale, per coprire il disavanzo. La Cina ha quasi 300 miliardi di dollari l’anno di surplus della bilancia dei pagamenti. Pagano pochissimo il lavoro, il costo del lavoro è forse un decimo di quello europeo e degli Stati Uniti. Ma il fatto più straordinario è che la Germania, proprio per l’aumento di competitività iniziato dal 2000, ha un surplus vicino a quello della Cina. La Germania è un terzo della Cina, e ha un surplus dovuto al fatto di avere un’industria particolarmente efficiente. Ma gode, grazie all’euro, di un cambio favorevole in quanto altri Paesi, tra i quali Italia, Spagna, Grecia, anche la Francia, di fatto ne abbassano il valore. Un Paese che ha un surplus della bilancia dei pagamenti dovrebbe reinvestirlo in spesa reale o prestarlo ad altri Paesi che hanno un deficit, altrimenti crea deflazione nel sistema di cui è parte. Il piano che aveva ideato Juncker, di investimenti per 315 miliardi, era la soluzione giusta. L’area dell’euro ha un surplus, nei confronti del mondo esterno, del 3% del suo Pil. Cosa fa? Ha disoccupazione, ha deflazione, può e deve spingere invece gli investimenti. L’ex ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, che è stato tanto criticato, aveva capito le cose meglio degli altri.

In sostanza l’argomento è: se invece di puntare tutto sul Quantitative easing (anche se Mario Draghi si sta muovendo nella giusta direzione, al massimo di quanto gli concede lo Statuto) comprando titoli pubblici – quindi coprendo una spesa già effettuata da altri –, 300 miliardi fossero impegnati ogni anno in progetti di investimento scelti dalla Banca Europea degli Investimenti e i relativi titoli acquistati dalle banche centrali nazionali, avremmo un immediato, notevole sollievo della situazione economica. La politica monetaria molto espansiva aiuta l’economia, in particolare in questo momento attraverso il cambio, che dopo i livelli che aveva raggiunto – proibitivi per le economie più deboli – è ora tornato su livelli più naturali. Comunque se il cambio è in linea con le economie più deboli, è estremamente favorevole per quelle più forti. 

Keynes ci ha insegnato: in un’economia dove c’è disoccupazione, il risparmio lo formano gli investimenti. Effettuando gli investimenti aumenta il reddito e si forma il nuovo necessario risparmio.



Non bisogna ragionare, come talora si fa in Europa, come se i soldi fossero già in cassa, questo è un ragionare da contabili, non tenendo conto delle più elementari nozioni di macroeconomia. L’area dell’euro soffre di problemi gravi di disoccupazione. La domanda globale è insufficiente. I riflessi sociali sono evidenti, seguiranno purtroppo riflessi anche politici. Il surplus di bilancia dei pagamenti di alcuni Paesi dovrebbe essere impiegato in investimenti reali, non finanziari, in patria o in altri Paesi dell’area. Una politica del genere aiuterebbe anche l’economia mondiale. Un’ultima considerazione. Nel 2007 il rapporto tra debito pubblico e Pil era nel nostro Paese pari a 103, è arrivato a ben oltre il 130 a seguito delle politiche di aumento dell’imposizione fiscale suggerite dalla Commissione. O è sbagliata la diagnosi o è sbagliata la medicina. Ma se è sbagliata la diagnosi, la cura è sicuramente controproducente. Se in una economia già in difficoltà si accresce il livello di imposizione fiscale l’attività economica viene ulteriormente frenata, con effetti negativi su occupazione e società. L’unico modo di ridurre il rapporto tra debito e Pil è stimolare la crescita. Se la politica praticata e che viene consigliata per l’Italia non ha questo risultato, non si esce dal circolo vizioso. Il discorso è aperto.




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