Inauguriamo il dibattito online.
Una continuazione di quello che può succedere durante la riunione del Gruppo del martedì
Si presta all'esperimento Gianpiero Magnani che, come tutti noi, non è un economista ma una persona attenta alla ricerca della comprensione di cosa sta succedendo e di quali possano essere le soluzioni. Propone dei punti di vista diversi e lo fa con stile. Gianpiero sostanzialmente ha fiducia che il sistema attuale si possa modificare, migliorare … vediamo! E scopriamo la bellezza di dialogare. Di seguito l'articolo e alla fine le mie considerazioni opposte. Chi volesse continuare il dibattito può lasciare il suo commento o scrivere a gruppoeconomia.fe@gmail.com


LA VOCE E L’USCITA
di Gianpiero Magnani

Le politiche dell’Unione Europea, almeno da un decennio a questa parte, ricordano le cosiddette “strategie indirette” descritte con grande precisione da Jon Elster in un libro che si chiamava “Ulisse e le Sirene”: Ulisse si fece legare per resistere alle lusinghe delle sirene e potersi così salvare, fece un passo indietro per poter fare poi due passi in avanti; il controriformismo, osservava Elster, è la strategia indiretta che consiste nel “farsi legare” oggi per ottenere risultati migliori domani. Le politiche economiche europee sono piene, a mio avviso, di tali strategie indirette o “controriformistiche”: dal vincolo del pareggio di bilancio all’obbligo di rientro del debito pubblico entro il 60% del Pil, fino alle recentissime misure di risoluzione delle
crisi bancarie col “bail in”. Tutte le politiche dell’austerità sono esempi di strategie indirette, controriformistiche, sull’esempio di Ulisse: ci facciamo legare, mani e piedi, stringiamo la cinghia oggi perché, si dice, potremo così ottenere risultati migliori domani.



Si può essere d’accordo o meno con questa visione, e per lo più la tradizione economica liberista del cosiddetto “mainstream” sembra concordare con essa; oppure si può dissentire. E’ interessante, a questo proposito, vedere con quali argomenti si possa contrastare la visione controriformista che ha ispirato buona parte delle politiche economiche recenti dell’Unione Europea: un altro autore del secolo scorso, Albert O. Hirschman, ci viene in aiuto con un interessante libro del 1970, “Lealtà, Defezione, Protesta”. Ci sono due modi per rispondere a situazioni critiche, o comunque a regole che non ci piacciono, osservava Hirschman: il primo modo è quello di contestarle, “alzando la voce”; il secondo modo è quello di abbandonare il gioco, la cosiddetta “exit strategy”, l’uscita.
Voce e uscita sono due risposte fondamentali, alternative fra loro, alle situazioni critiche; la prima, la voce, è in sostanza la risposta riformista: queste regole non ci piacciono, perciò ci battiamo (alziamo la voce) per cambiarle; con la seconda risposta, invece, non pensiamo minimamente di poter cambiare le regole del gioco, perché è il gioco stesso che non ci interessa, dal quale ci vogliamo allontanare per giocarne uno completamente diverso.
I critici del controriformismo delle regole europee hanno perciò due modi alternativi di controbattere: il primo modo è contestare le regole per cambiarle all’interno del quadro normativo ed economico dell’Unione Europea, chiedendo riforme concrete come, per esempio, il debito pubblico europeo (l’introduzione degli Eurobond in sostituzione dei debiti nazionali), la riforma della Bce affinché possa svolgere a pieno titolo il proprio ruolo di prestatore di ultima istanza e senza limiti di azione, la fiscalità comune, una politica estera comune, esercito ed intelligence comuni, e così via fino alla Costituzione comune europea che introduca processi di maggiore democrazia nella scelta dell’establishment.
E’ l’immagine dell’Europa federale, sul modello statunitense o su quello svizzero, che si fonda su un argomento politico forte: le politiche di unificazione europea hanno garantito, insieme all’Alleanza Atlantica, settant’anni di pace e la salvaguardia della democrazia all’interno dei confini dell’Unione, e un ulteriore passo in avanti del federalismo europeo ne potrebbe fare la prima potenza economica e politica del pianeta, visto che già ora un quarto del Pil mondiale viene prodotto nel Vecchio Continente. L’Europa federale diventerebbe in sostanza, per questa visione, il primo attore politico del mondo, con effetti strategici positivi anche ai suoi confini, oggi dilaniati da conflitti, dal mondo arabo all’Est. Il permanere dell’Europa nell’anarchia che contraddistingue l’attuale fase “controriformista” dell’Unione, o peggio ancora la sua dissoluzione, farebbe invece il gioco degli altri grandi attori che dominano lo scenario mondiale, sempre più globalizzato. Un grande fautore di questa visione è, per esempio, Edgar Morin, che nel libro “La nostra Europa” riferendosi alla necessità delle riforme così si esprime: “L’Europa ha bisogno di un New Deal economico, sociale, umano paragonabile a quello promosso da Franklin Delano Roosevelt nel 1933”.
Il secondo modo di contrastare il controriformismo imperante oggi nell’Ue è invece la “exit strategy”, come l’ipotizzata Grexit, o la Brexit o, per l’Italia, l’approccio di chi ritiene necessario uscire dall’euro e tornare alla lira (o alla nuova lira), nella convinzione che la sovranità monetaria - ristretta al nostro Paese - consentirebbe a quest’ultimo di guadagnare spazi di competitività a livello globale, come accadde negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando arrivammo ad essere la quinta (e per un periodo persino la quarta) potenza economica del mondo; un mondo che però, all’epoca, era anch’esso un mondo ristretto, perché le grandi economie globali erano in sostanza solo quelle dell’Occidente.
Le due prospettive, la voce (il riformismo che vuole cambiare le regole dell’UE) e l’uscita (l’exit strategy) hanno ciascuna molti argomenti da spendere, e un’analisi dettagliata di tali argomenti richiederebbe inevitabilmente spazi ben più ampi di discussione. La mia opinione però è che, alla fine, i fautori dell’una o dell’altra prospettiva sono influenzati da motivazioni essenzialmente fideistiche, di credo politico legato anche alla diversa percezione che ciascuno ha delle conseguenze che possono derivare dall’attuazione delle due opzioni alternative, ed in particolare di quella relativa alla exit strategy (l’uscita): perché, in realtà, nessuno è in grado di prevedere ex ante cosa succederebbe in uno scenario di questo genere, se non il fatto certo che, una volta concretizzata la strategia di uscita, indietro poi non si torna più. L’exit strategy è, in altre parole, equivalente ad una rivoluzione, ed è una rivoluzione paragonabile per molti aspetti ad altre rivoluzioni di storica memoria; mentre l’opzione riformista (alzare la voce per cambiare le regole) presuppone una prospettiva più “popperiana”, che procede per prove ed errori, con aggiustamenti successivi e per gradi.
Meglio le riforme o la rivoluzione? In realtà, il prevalere della strategia dell’uscita dipende in modo fondamentale dalla forza o dalla debolezza dell’opzione riformista; non c’è alcun bisogno di uscire dall’euro, o dall’UE, se vi sono chiari programmi di riforma del sistema, incarnati da soggetti politici altrettanto chiari e determinati a portarli a termine. L’uscita, osservava Hirschman, prevale invece quando la voce è troppo bassa, quando è troppo debole: “la decisione di uscire o meno sarà spesso presa alla luce delle prospettive di un uso efficace della voce”. E’ dunque la sconfitta dell’opzione riformista che lascia spazio alle strategie di uscita: è la mancanza o l’inefficacia di politiche del cambiamento il più grande pericolo per il futuro dell’UE.


Riferimenti:
- Jon Elster, “Ulisse e le Sirene”, ed. Il Mulino 1983
- Albert O. Hirschman, “Lealtà Defezione Protesta”, ed. Bompiani 1982Edgar Morin, - - Mauro Ceruti, “La nostra Europa”, Raffaello Cortina Editore 2013


Replica di Claudio PISAPIA

La politiche di austerità messe in campo nell’eurozona sono semplicemente politiche sbagliate e non politiche che guardano al futuro. L’austerità crea recessione e deflazione perché impedisce agli Stati di spendere. Attuando il pareggio di bilancio o peggio arrivando a dei surplus si tolgono risorse ai Paesi e si rende impossibile lo sviluppo e la crescita. Non potendo investire in sviluppo e crescita ovviamente si crea un circolo vizioso dal quale, come si sta vedendo, non si può uscire. Inoltre, l’austerità aumenta disparità sociali e diseguaglianza. Chi ha creato il disastro delle ultime crisi giocando in borsa e creando derivati e debito, ha avuto responsabilità dirette in questo, non viene toccato dalle imposte privazioni che sono invece tutte a carico della comunità che prima non ha partecipato agli utili e adesso si ritrova a pagare i danni dell’orgia da derivati. Chi prima non faceva la fila all’AUSL non la fa nemmeno in tempi di austerity!

Inoltre, il debito pubblico da ripagare. Una sciocchezza (per me ma anche per molti economisti e premi nobel) che oramai nell’eurozona sta diventando davvero pericolosa in quanto solo da noi è un debito in valuta straniera che diventa automaticamente un debito (si vedano altri post miei sul tema del debito pubblico per capire la differenza tra debito di uno Stato a moneta sovrana e debito con l'estero o con valuta non di proprietà).

In merito al gioco, in genere in un gioco si deve essere almeno in due e le regole devono essere condivise dall'inizio del gioco, altrimenti è impossibile giocare. La Germania ha troppi interessi a che la situazione non cambi e a tenersi il suo surplus commerciale ottenuto grazie al cambio fisso che costringe i Paesi del Sud Europa ad un indebitamento continuo. Quindi possiamo aspettare che piano piano le cose comincino ad andare male anche per i tedeschi, come hanno iniziato ad andare male per i Francesi, ma non mi sembra un affare interessante aspettare il cadavere del nemico sulla riva del fiume. Nel frattempo potremmo essere già morti tutti!

Il tema Eurobond rincorre se stesso, di nuovo le regole vanno stabilite dall'inizio. Lo stesso Amato o Monti hanno detto che gli aggiustamenti si sarebbero fatti con il tempo e le crisi. Ma è accettabile? Cittadini, persone e Stati non hanno questo tempo, le crisi spezzano vite e distruggono futuro e per l'ennesima volta la Merkel ha appena detto no!! Aspettiamo che cambi idea e nel frattempo chiudiamo altri ospedali e tagliamo assistenza e pensioni?

Riguardo all'intelligence: cedere intelligence sarebbe davvero l’atto ultimo di una reale integrazione. Nessuno Stato sarà mai disposto a farlo perché prima dovrebbe venire tutto il resto. I fatti del Belgio dimostrano che non c’è volontà di farlo.


E la volontà popolare: ogni volta che è stata data la possibilità ai popoli di votare in materia di integrazione europa (sulle basi attuali), questi hanno sempre votato contro dimostrando una saggezza superiore ai loro governanti. L’unico modo per far andare avanti l’Unione/eurozona è stata l’imposizione dall’alto, cosa che sta’ avvenendo con continua sottrazione di democrazia. La nostra Costituzione è offesa dall'introduzione dei trattati europei (vedasi l'intervista che ho fatto a Marco Mori qui 

70 anni di pace assicurato dal progetto di integrazione europeo: su questo punto ci ho scritto un articolo che invito a leggere. Dal secondo dopoguerra siamo stati più o meno una colonia americana sotto controllo NATO. Non ci è stato permesso una politica industriale autonoma, figuriamoci se ci avrebbero permesso una guerra. Eravamo in mezzo ad interessi più grandi di noi. qui per l'articolo


Non credo che siamo passati da un mondo chiuso a un mondo aperto. Credo invece che siamo passati da un mondo regolato a un mondo con sempre meno regole. Il passaggio dalle politiche Keynesiane a quelle neo liberiste ha richiesto sempre meno regole perché questo tipo di mondo si basa principalmente sul profitto che cresce laddove diminuiscono controlli e regole e laddove lo Stato non possa esercitare le sue funzioni di controllo e difesa degli interessi democratici, solidali, partecipativi. Quindi dagli anni 80 si è creato il mercato che conosciamo oggi, cioè la giungla, in cui vince chi produce peggio e a minori costi. Ovvero sfruttando! Lo Stato faceva affari con le partecipate, quindi si privatizza. Le banche erano pubbliche, si privatizzano perché possano creare credito (moneta) a comando. Le banche non potevano fare finanza, e quindi espandere il debito sul quale creare derivati (e guadagno spropositato), si elimina il Glass – Steagall e si da la possibilità a tutte le banche di fare finanza (e disastri a spese dei risparmiatori). Si fanno girare liberamente i capitali, si permette alle aziende di produrre dove non ci sono sindacati e si possono far lavorare i bambini. Insomma, continuiamo ad aspettare?

L’exit strategy non è una fede ma una necessità. Per me exit vuol dire non solo uscita dalla follia euro ma soprattutto dalla follia neoliberista e da questo concetto di “mercato globale” da cui dovremmo fuggire, anche a costo di soffrire qualche anno per trovare il nostro posto nel mondo. Invece, se si rimane si rimane solo per paura, per convinzioni inculcate, ma qualcuno potrebbe dire che se la Grecia avesse scelto di uscire già nel 2011 sarebbe stato peggio? Anche in termini di dignità, oltre che economicamente?

Chiari programmi di riforma non ci sono, non sono in programma. L’Italia chiede delle cose che non vengono prese in considerazione semplicemente perché altri hanno interessi diversi. Quando si decide di costituire una comunità lo si fa in base a valori comuni, condivisi. Se lo si fa per interessi economici e sono quelli gli interessi che si è deciso di condividere all’inizio e su quello si è costruito. Ma chi lo ha deciso? Non i popoli o i bisogni dei cittadini ma gli interessi elitari e finanziari (posso dire che oggi è del tutto evidente?). Su queste basi perdita di democrazia, diseguaglianza, competizione per l’osso da rosicchiare e leggi per l’1% della popolazione, sono solo ovvie conseguenze. E’ inutile invocare gli eurobond come soluzione a tutti i mali. Quello sarebbe la soluzione al debito pubblico che è un problema solo se esiste l’eurozona, quindi un falso problema.


Qui dobbiamo considerare un cambio di paradigma antropologico(copio spudoratamente le parole di un altro Claudio). Parliamo di noi! Di quelli che vogliono la possibilità di scegliere di vivere diversamente. Di vivere un mondo che non sia imposizione finanziaria ma costruito su scelte democratiche. Condivisione al posto di competizione. Territorio e locale al posto di globalizzazione forzata ad uso multinazionali dello sfruttamento. Vogliamo uscire dalla gabbia e riprenderci la capacità di scelta, di democrazia, di immaginare un futuro. E cos'è l'eurozona se non una gabbia?


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